La diplomazia dei prosciutti

17 Apr,2025 | Le Curiosità

Immaginate di essere nel 1518, e la vostra città stia cercando di mantenere i propri privilegi. Cosa fate? Ovviamente, mandate dieci prosciutti a un intermediario per parlare con il re! Almeno, questo è quello che fecero i nostri astuti antenati cavesi.

La storia che sto per raccontarvi non è tratta da una commedia di Goldoni, ma dai verbali delle Deliberazioni dell’Università (così si chiamava allora il comune) della Cava. Ed è una storia che ci mostra quanto i nostri avi fossero disposti a fare per difendere i loro diritti.

Un documento scomparso e prosciutti diplomatici

Tutto iniziò con un bello spavento: la famosa “Pergamena Bianca”, documento fondamentale che attestava i privilegi della città, era sparita! Fortunatamente fu “restituita da chi la deteneva impropriamente” (chissà quale storiella ci sarebbe da raccontare anche qui).

Ma non bastava avere il documento: bisognava ottenere la riconferma dei privilegi dal re, che stava comodamente in Spagna. Mandare una delegazione ufficiale sarebbe costato troppo per le casse cittadine, già prosciugate dalle tasse del Viceregno. Cosa fare?

Ecco spuntare un certo “messer Framigno” (o Framigni, come viene chiamato più avanti), un personaggio che doveva già recarsi dal re e che si offrì di portare le istanze della città. Il prezzo della sua mediazione? Dieci prelibati prosciutti cavesi, raccolti con cura dai vari casali, più “qualsiasi cifra da lui richiesta” – un assegno in bianco ante litteram!

Piano B: cercansi viaggiatori coraggiosi

Evidentemente il nostro messer Framigno non doveva aver dato garanzie sufficienti, perché un mese dopo le autorità cittadine avevano cambiato strategia: cercavano “uno o due uomini della città” disposti a recarsi in Spagna.

Immaginate la scena: Andrea Longo, Modesto della Corte, Nicola Quaranta e gli altri notabili interrogati “uno spartuto da l’altro” (separatamente) se se la sentissero di affrontare un viaggio che all’epoca poteva durare settimane, tra strade infestate da banditi e traversate marittime pericolose. Tutto per presentare un memoriale al re.

La soluzione napoletana e i doni strategici

Alla fine si scoprì un’altra possibilità: gli ambasciatori napoletani, che dovevano già andare in Spagna, si offrirono di “perorare anche le ragioni della città de La Cava”. Un classico “due piccioni con una fava”.

Nel frattempo, per non lasciare nulla al caso, il sindaco fu convocato dal Viceré, e qui la diplomazia dei doni raggiunse livelli epici: 88 capponi (non uno di più, non uno di meno), torce di cera lavorata, quantità industriali di marzapane e “copeta” (torrone). E non dimentichiamo la “pignolata”, dolce realizzato dagli antesignani degli ottimi pasticcieri cavesi, i signori Sansone e Pietro Giovanni de Lando.

Perché tanto impegno?

Tutta questa fatica era ben ripagata dai vantaggi che i privilegi garantivano. Non solo esenzioni commerciali, ma anche la possibilità di essere giudicati dal tribunale locale (il Regio Capitano) invece che dalla Gran Corte della Vicaria di Napoli. Per non parlare dell’esenzione dall’ospitare militari, che all’epoca significava fornire “stantia, strame et lecto” (alloggio, foraggio e letto) a soldati non sempre educatissimi.

La storia si conclude con Benedetto Gagliardi che, dovendo andare in Spagna, si offrì di portare a messer Framigni il “transunto” (copia) dei privilegi – chiedendo ovviamente un compenso.

Chissà se i dieci prosciutti furono sufficienti, se messer Framigni mantenne la parola data, o se alla fine furono gli ambasciatori napoletani a salvare la situazione. Quel che è certo è che i nostri antenati cavesi non si risparmiarono in ingegno, diplomazia e… salumi, per difendere i loro diritti.

E la prossima volta che assaggerete un buon prosciutto locale, ricordatevi che potreste avere tra le mani uno strumento di alta diplomazia rinascimentale!

tratto da pubblicazione di Rita Taglè

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