Tra il 1850 e il 1859, una giovane nobildonna inglese trascorse diverse estati a Cava de’ Tirreni, ospite della famiglia Orilia a Castagneto. Le sue memorie, pubblicate in Inghilterra nel 1860 e tradotte in italiano solo nel 1998, ci offrono uno sguardo prezioso sull’aristocrazia cavese dell’epoca borbonica. Il suo racconto, vivace e ironico, ci restituisce il ritratto di una nobiltà provinciale molto diversa da quella delle grandi capitali europee.
Le origini mercantili: un’aristocrazia senza blasone
L’aristocrazia cavese aveva origini prevalentemente mercantili: famiglie che avevano costruito la propria ricchezza sulle attività manifatturiere e commerciali del Seicento e Settecento, quando Cava era una delle città più fiorenti del Regno di Napoli.
Nel tempo, questa classe si arricchì di professionisti: notai, avvocati, medici, farmacisti. Alcuni acquisirono titoli feudali, ma la maggior parte manteneva i caratteri di un’aristocrazia di provincia, che si rapportava quotidianamente con i ceti più umili condividendo molte pratiche e comportamenti.
Una nobiltà poco raffinata
Ciò che colpiva la scrittrice inglese era la scarsa raffinatezza di questa nobiltà. Gli Orilia e le altre famiglie benestanti vivevano in modo sorprendentemente semplice, privo degli agi che il progresso portava nelle grandi città europee.
La giovane dama rimaneva stupita che i nobili cavesi vivessero in ambienti sporchi e polverosi, pieni di insetti. Questa mancanza di igiene era generalizzata. Lo stesso Borgo le appariva un “sudicio strettoio”.
Sorprendente era anche che molti aristocratici rimanessero analfabeti e vestissero semplicemente nel quotidiano, per poi trasformarsi completamente durante le feste.
L’ostentazione nelle occasioni speciali
Durante le feste, le signore della “Cava-bene” pretendevano di emulare la moda napoletana facendo sfoggio di eleganti abiti e curiose acconciature. Esistevano due mondi: quello quotidiano, semplice e trasandato, e quello delle grandi occasioni, in cui si dava sfogo all’ostentazione. Questa contraddizione rifletteva il desiderio di mantenere uno status sociale elevato pur vivendo in condizioni economiche che stavano peggiorando.
I “raffinati” del caffè
I cosiddetti “raffinati” cavesi amavano stare seduti davanti al caffè principale del centro, di fronte al palazzo vescovile, intenti a fumare e sputare furiosamente in modo incivile, pronti a lanciare sguardi a tutte le fanciulle appariscenti – compresa la bionda scrittrice inglese. Questo comportamento, sgradevole per chi era educato secondo i rigidi canoni vittoriani, era considerato normale nella società cavese.
Due “assurdità” della nobiltà locale
La scrittrice identificava due comportamenti particolarmente curiosi dell’aristocrazia cavese:
1. Le interminabili visite
I nobili cavesi non esitavano a fare lunghe ed interminabili visite a vicini e conoscenti. Questo costume, che poteva risultare opprimente per chi proveniva da una cultura più riservata come quella inglese, era parte integrante della socialità locale.
2. L’eccessiva familiarità
L’autrice notava con stupore che, “nonostante il cerimoniale spagnolo abbia innalzato una barriera insuperabile nei rapporti sociali, ogni ceto del paese crede di poter far visita a qualcuno, e fa così senza il minimo scrupolo”.
Questa eccessiva familiarità coinvolgeva anche altri segmenti sociali, creando una promiscuità sociale che a una nobildonna inglese doveva apparire del tutto impropria. La spiegazione che si dava era che la nobiltà napoletana – concetto esteso a tutta la nobiltà del Regno – durante la villeggiatura “si mescola liberamente con la società di campagna, che è estremamente eterogenea”.
L’alimentazione: nobili ma non troppo
Anche a tavola l’aristocrazia cavese mostrava abitudini poco “aristocratiche” secondo gli standard europei. L’alimentazione, sebbene migliore di quella dei contadini, non era particolarmente ricercata o raffinata.
I piatti base erano:
- Pesce e maccheroni (alimenti basilari)
- Pasta condita con salsa di pomodoro o con ragù
- Pasta bollita con burro e parmigiano grattugiato
- Pesce fritto in ottimo olio locale
- Minestre elaborate con maiale salato, cavoli, cipolle, aglio, finocchio, spinaci e cicoria
- Grandi quantità di pane fresco
I pasti erano consumati a mezzogiorno per il pranzo e tra le nove e le dieci di sera per la cena. Una cucina certamente più sostanziosa di quella contadina, ma lontana dalla raffinatezza delle tavole aristocratiche europee.
Confronto con i napoletani: calore contro etichetta
L’autrice dedicava riflessioni interessanti al confronto tra napoletani e inglesi. I primi le apparivano calorosi e cerimoniosi, con il “bel tocco del laccio” e talenti da giocolieri nell’impugnare le redini. Avevano “un’apparenza così buona e cordiale (e realmente è così), che è impossibile arrabbiarsi con loro”.
Al contrario, trovava “stupefacente come siamo cerimoniosi e cortesi in modo non naturale noi in Inghilterra, dove nulla può essere fatto o detto, se non secondo le regole dell’etichetta”.
Riconosceva quindi la bontà d’animo dei Napoletani e, per estensione, dei Cavesi, apprezzando la loro spontaneità e cordialità, così diverse dalla rigidità formale della società vittoriana.
La crisi economica e il declino
Cava attraversava un lungo periodo di grave crisi, dovuta al collasso delle attività manifatturiere che avevano costituito la base della ricchezza cittadina. Nel 1848 i lavoratori avevano tentato una disperata resistenza all’industrializzazione. Nel 1866 risultavano ormai solo 8 tessitorie di cotone e 2 opifici per la pasta.
Gli imprenditori locali non erano stati capaci di convertire il lavoro artigianale in vera attività industriale. Si aspettavano capitali svizzeri, si temeva l’industria moderna, e si preferiva restare aggrappati al passato. Questa crisi colpiva duramente anche l’aristocrazia, che vedeva erodersi le proprie rendite pur cercando di mantenere le apparenze.
I valori preservati
Nonostante le difficoltà economiche e la scarsa raffinatezza, l’aristocrazia cavese preservava alcuni valori tipici della società di provincia:
- Orgoglio per l’appartenenza a casate di gloriosa tradizione: le famiglie cavesi vantavano storie secolari legate alla città
- Senso di comunità: nonostante le rivalità, esisteva un forte legame con il territorio
- Integrazione sociale: i rapporti quotidiani con i ceti popolari creavano una società meno rigidamente stratificata
- Ospitalità: i nobili cavesi mostravano grande disponibilità verso gli ospiti stranieri
La borghesia emergente
Accanto alla vecchia aristocrazia di origine mercantile, stava emergendo una nuova borghesia che, grazie alle riforme amministrative napoleoniche recepite anche dai Borboni, stava velocemente entrando nei luoghi privilegiati del potere locale.
Questa classe, composta da professionisti e proprietari terrieri, avrebbe raccolto l’eredità storica del patriziato e sarebbe diventata la vera classe dirigente della Cava post-unitaria.
Il ritratto che emerge è quello di un’aristocrazia ruspante e genuina, lontana dai fasti delle corti europee, ma autentica e radicata nel proprio territorio.
Una nobiltà che aveva costruito la propria posizione sul lavoro e sul commercio piuttosto che su blasoni, che manteneva rapporti con tutti i ceti sociali, che viveva semplicemente nel quotidiano ma non rinunciava all’ostentazione nelle occasioni pubbliche.
Una classe in crisi, che vedeva erodersi le basi economiche ma cercava di mantenere ruolo e prestigio. Una nobiltà provinciale, certo, ma proprio per questo più vicina alla realtà concreta della vita cittadina, meno distaccata di quella delle grandi capitali.
Le osservazioni della giovane inglese, pur critiche, sono venate di simpatia di fondo e rispetto per le tradizioni locali. Ci ha lasciato un documento prezioso su un mondo che stava per scomparire, travolto dall’unificazione nazionale e dalle trasformazioni della seconda metà dell’Ottocento.
Articolo basato sullo studio “Cava nella seconda metà dell’Ottocento – Note sulle memorie di un’anonima autrice inglese” di Giuseppe Foscari, pubblicato in “Cava ovvero i miei ricordi dei Napoletani (Memorie di un’anonima autrice inglese del XIX secolo)”, traduzione di Federico Guida, Comune di Cava de’ Tirreni, 1998.