Il contesto nazionale: breve panoramica
Nell’Italia dell’Ottocento, i contadini rappresentavano la maggioranza della popolazione e vivevano in condizioni di estrema difficoltà. Nel Mezzogiorno la situazione era ancora più grave: privi di terra e risorse, i contadini lavoravano in condizioni di quasi servitù, in uno stato di povertà che alimentava risentimento contro i grandi possidenti. La mancanza di riforme agrarie avrebbe portato, negli anni successivi all’Unità, al fenomeno del brigantaggio.
Una fonte preziosa: le memorie di un’inglese a Cava
A restituirci uno spaccato vivido della vita contadina a Cava de’ Tirreni è un’anonima scrittrice inglese che, tra il 1850 e il 1859, trascorse diverse estati nella nostra città. Le sue memorie, pubblicate in Inghilterra nel 1860 e tradotte in italiano solo nel 1998, rappresentano una testimonianza di straordinario valore storico.
La giovane dama, probabilmente figlia di un diplomatico, soggiornava a Castagneto presso la famiglia Orilia. Parlava italiano, comprendeva il napoletano e, cosa rara per una nobildonna dell’epoca, frequentava e dialogava con i ceti più umili.
L’aspetto e l’abbrutimento
I contadini cavesi le apparivano “di animo buono, primitivi nei comportamenti, scontrosi ma pronti alla rissa, terribilmente ignoranti”. La scrittrice annotava che non riconoscevano “la differenza tra un fiore di serra e un torsolo di cavolo”.
L’abbrutimento era evidente: sporcizia dilagante, mancanza totale di igiene, credulità fomentata dal clero. Eppure, dietro questa durezza, la scrittrice riusciva a cogliere l’essenza profonda dell’animo contadino meridionale.
La generosità paradossale
Ciò che più colpiva l’autrice era la straordinaria generosità di queste persone così povere. Scriveva con commozione: “Sembra strano come, essendo così poveri, adottino pure dei bambini, quando il Cielo toglie loro i propri; la perdita di un figlio deve essere una prova amara, ma è pure, in senso economico, un sollievo da un gran peso”.
Un figlio in meno significava una bocca in meno da sfamare, eppure scattava quell’impulso tutto meridionale alla solidarietà, a dividere il poco che si aveva, a non lasciarsi andare a un pur comprensibile egoismo. Era questo uno dei paradigmi fondamentali della civiltà rurale cavese: cameratismo, solidarietà, riconoscimento dei bisogni altrui, spirito di servizio, reciproco aiuto, soccorso senza ipocrisie.
L’alimentazione povera ma genuina
La tavola dei contadini cavesi era estremamente semplice. Dovevano accontentarsi dell’olio che alimentava le lampade per condire i cibi – lo stesso olio che serviva per l’acconciatura delle donne alle feste.
Mettevano da parte provviste di frutta secca per affrontare l’inverno: prugne secche, fichi, pomodori tagliati a metà, scorze di melone e peperoncini, di cui “andavano pazzi”. Nel menu quotidiano comparivano:
- Brodo di lumaca, ricercatissimo
- Ricotta fresca ottenuta con latte di capra
- Caciocavalli
- Granturco bollito
- Pinoli ottenuti da pigne arrostite
- Verdure di ogni tipo
- Un'”orribile torta d’aglio”, tonda e piatta, venduta a fette per il paese da mangiare con sale e pepe
- Frutta di stagione, soprattutto ciliege
Ben diversa era l’alimentazione dei ceti più abbienti, che potevano permettersi pesce fritto in ottimo olio, pasta condita con salsa di pomodoro o ragù, minestre elaborate con maiale salato, cavoli, cipolle, aglio, finocchio, spinaci e cicoria, il tutto accompagnato da grandi quantità di pane fresco.
Il rapporto con la terra: rifugio e speranza
In quegli anni Cava viveva una profonda crisi economica. Nel 1848 i lavoratori cavesi avevano tentato una disperata resistenza all’industrializzazione che stava distruggendo il lavoro artigianale domiciliare.
Sopravviveva ancora il lavoro sul telaio in casa, ma gli artigiani mantenevano un saldo rapporto con la terra, bene-rifugio per eccellenza e alternativa allo spettro della povertà.
I valori della civiltà rurale
Nonostante le difficoltà, a Cava si preservavano intatti i valori della campagna che la scrittrice inglese riusciva a cogliere con sensibilità:
- Solidarietà comunitaria: l’aiuto reciproco era la norma, non l’eccezione
- Coesione sociale: nonostante le differenze, esisteva un forte senso di appartenenza
- Integrazione fra ceti: nobili e contadini condividevano spazi e, in parte, pratiche quotidiane
- Spirito di servizio: la disponibilità verso gli altri era un valore condiviso
La scrittrice raccontava di essere stata testimone di una vera e propria gara di generosità tra i poveri cittadini nei confronti del gruppo di villeggianti inglesi: un susseguirsi di doni, ammirazioni, attenzioni, nella speranza – vana ma commovente – che quegli stranieri potessero in qualche modo aiutare a risolvere i problemi di lavoro.
Le ombre: violenza e omertà
Ma la vita contadina cavese non era fatta solo di solidarietà e valori positivi. La scrittrice non nascondeva le ombre che gravavano su quella comunità.
Tra mendicanti, poveri e disagiati poteva scattare facilmente la violenza. C’era una propensione alla rissa, a risolvere i problemi con il vigore fisico. Le precarie condizioni di sussistenza generavano tensioni che si sfogavano in scontri anche violenti tra vicini e conoscenti.
L’autrice toccava con mano anche altri mali storici del Meridione: l’omertà, la furbizia elevata a valore di vita, il clientelismo, l’inclinazione al sotterfugio. Raccontava di una rapina e dell’omertà della gente di Castagneto, con la testimone oculare minacciata dai parenti del ladro e costretta a ritrattare per mandare in prigione l’accusato.
“Questa propensione all’imbroglio” – scriveva con disappunto – “è uno dei vizi più gravi dei Napoletani dal quale nessuna classe è esente”.
Il rispetto per gli stranieri
Nonostante le difficoltà e le contraddizioni, i contadini cavesi mostravano un grande rispetto verso gli ospiti stranieri. Gli inglesi venivano trattati con riguardo e gentilezza, in un atteggiamento che mescolava deferenza, curiosità e speranza.
L’autrice annotava con affetto come le persone più umili, ma anche quelle più affermati nella città, gareggiassero nel mostrare devozione e generosità verso quel gruppetto di villeggianti, in un atteggiamento che rivelava l’innata ospitalità meridionale.
Una Cava che non esiste più
Le memorie dell’anonima scrittrice inglese ci restituiscono l’immagine di una Cava preurbanizzata, dominata dalla natura, dal bosco, dalla selva. Una città dove era difficile spostarsi per la mancanza di continuità nelle comunicazioni tra centro e periferie.
I contadini si muovevano lungo sentieri sterrati, a dorso di mulo o a piedi, in un paesaggio fatto di campi di grano e granturco, vigneti e boschi. Ogni casale guardava al vicino “come a un paese straniero”, in quell’antagonismo locale che era un tratto caratteristico della storia cittadina.
Conclusioni: un documento prezioso
La testimonianza di questa giovane inglese, insieme a quelle della principessa di Villa (1883) e di Paolina Craven (1891), ci permette di ricostruire con precisione quasi quattro decenni della vita contadina cavese nell’Ottocento.
Emerge il ritratto di una classe sociale povera ma dignitosa, abbrutita dalle condizioni materiali ma capace di mantenere vivi valori fondamentali di solidarietà e mutuo soccorso. Una comunità segnata da contraddizioni profonde: generosità e violenza, ospitalità e omertà, semplicità e furbizia.
La scrittrice inglese ha saputo “congelare” quella Cava che non esiste più, restituendoci la possibilità di toccare con mano quella realtà, di immergerci nelle sue mille contraddizioni, nei suoi sapori e umori più genuini, nelle fantasie e superstizioni che animavano la vita quotidiana.
Un mondo durissimo, fatto di fatica e privazioni, ma anche un mondo in cui l’umanità sapeva ancora esprimersi in forme di solidarietà che oggi, forse, abbiamo perduto.
Articolo basato sullo studio “Cava nella seconda metà dell’Ottocento – Note sulle memorie di un’anonima autrice inglese” di Giuseppe Foscari, pubblicato in “Cava ovvero i miei ricordi dei Napoletani (Memorie di un’anonima autrice inglese del XIX secolo)”, traduzione di Federico Guida, Comune di Cava de’ Tirreni, 1998.