Dietro un vecchio portone si nasconde sempre una storia e quante storie ci sono dietro i portoni dei cavesi!
Sono storie soprattutto di contadini, di operai, di gente povera che negli anni ’50 viveva in poche stanze, senza energia elettrica e con la cucina “economica”, con quegli enormi pentoloni dove si riscaldava l’acqua per pulirsi dalle fatiche del lavoro e si cucinava, magari si cuocevano le spighe o si preparavano le frittate con le uova deposte dalle galline nell’aia, sulla paglia, in un angolo ben nascosto.
Li ricordo quegli stanzoni. Sentivi un profumo misto all’odore di fumo. Alzavi gli occhi e vedevi tra le travi di legno, in fila, salami, coppate, le bolle di interiora di maiale con la sugna, le soppressate. Magari chiedevi a tuo nonno di prendere una, di affettarla e ne gustavi il sapore pieno: ti bastava qualche fetta e già eri sazio.
Dietro quel vecchio portone c’erano sempre delle grosse scale, che ti portavano nell’aia, dove le galline razzolavano e si ripulivano dalla pula le spighe di grano.
Poi giù verso la terra. La terra, soprattutto nelle frazioni, era ed è ancora una terra nera, frammista ancora in qualche zona con residui lavici del vicino Vesuvio che la rendono fertile. Il vulcano: vedi il suo profilo con la sua doppia gobba salendo verso S. Anna, sulle dolci colline sempre ultime a perdere la luce del sole e sempre prime ad essere illuminate all’alba di rosa tenue.
Ma torniamo alla nostra antica porta scolorita: dalle scale all’aia e poi ancora scale e ti ritrovavi nella natura piena: il verde brillante della primavera con le sue gemme e i suoi boccioli di giaggioli, il giallo delle spighe al vento caldo estivo, ma anche il rosso scuro ed i marroni forti delle foglie d’uva dell’autunno. Infine l’inverno con i suoi rami spogli e la tristezza di non poter coltivare ogni giorno per il freddo, il vento forte e la pioggia che ha sempre caratterizzato la nostra verde vallata. Le stagioni erano e sono sempre tutte necessarie per i contadini: ognuna di esse porta frutti, sapori e colori.
Poi ancora giù, verso la grande quercia, che si elevava tra i noccioli con tutta la sua maestosità e noi intorno a raccogliere le ghiande, che per i bambini cresciuti nelle terre coltivate dai contadini hanno una loro funzione. Le ghiande diventavano un semplice ma divertente giocattolo: con un coltellino le bucavi e con uno stecchetto di legno le trasformavi in una pipa: quella pipa che avevi visto fumare da tuo nonno, nei momenti di pausa dallo zappare la terra, piena di dure zolle. Oppure le raccoglievi e scappavi verso il porcile per buttarle in pasto al povero maiale che tra qualche mese sarebbe restato appeso, squarciato in due, nel cortile, dopo aver udito per decine di metri il suo lamento di morte.
Quanto terrore incuteva l’udire quella sofferenza: per i bambini era una festa, una festa di morte… I più coraggiosi riuscivano a guardare il coltello che veniva infilato nella gola del povero animale e l’uscita a flotti del sangue raccolta nei secchi per poterne fare del sanguinaccio.
I più codardi correvano sulle scale e aprivano quel portone per scappare da quella scena macabra.
Oggi quel portone non ha solo un batacchio, ha anche una moderna serratura, come vedete nella foto: è una serratura che ormai è ben serrata e di cui abbiamo forse perso irrimediabilmente la chiave.
Pubblicato su Porticando – febbraio 2019