Nella seconda metà dell’Ottocento, tre viaggiatrici straniere rimasero incantate dalla bellezza naturale di Cava de’ Tirreni, lasciandoci testimonianze preziose di un paesaggio che oggi è profondamente mutato. Un’anonima scrittrice inglese (1850-1859), la principessa di Villa (1883) e Paolina Craven (1891) ci restituiscono, attraverso i loro scritti, l’immagine di una Cava preurbanizzata, selvaggia e rigogliosa, dove la natura dominava incontrastata.
Questi tre sguardi femminili, distanziati nel tempo ma uniti dalla stessa fascinazione per il paesaggio cavese, ci permettono di ricostruire quasi quattro decenni di storia naturalistica della città metelliana, offrendoci uno spaccato irripetibile di quella che era la “porta d’ingresso” di Salerno.Nella seconda metà dell’Ottocento, diverse viaggiatrici straniere visitarono Cava de’ Tirreni, lasciando testimonianze scritte che oggi rappresentano fonti storiche insostituibili per ricostruire il paesaggio naturale della città. Questi resoconti, pubblicati tra il 1860 e il 1891, coprono quasi quattro decenni e ci restituiscono l’immagine di una Cava profondamente diversa da quella attuale: preurbanizzata, selvaggia e dominata dalla natura.
Il dominio di boschi e selve
La Cava della seconda metà dell’Ottocento era caratterizzata da un’impronta decisamente rurale che sarebbe rimasta tale per tutto il secolo. Il paesaggio era dominato largamente dal bosco e dalla selva, con vaste aree naturali incontaminate che si alternavano a piccoli nuclei abitati.
Vista dall’alto, la città appariva come un mosaico verde punteggiato da campanili e cupole: rigogliosi campi di grano e granturco, graziosi vigneti, boschi fitti e villaggi sparsi come Rotolo e Casaburi. Era un ambiente quasi selvaggio che riservava continue sorprese paesaggistiche ai visitatori.
I sentieri: l’unica via di comunicazione
In assenza di strade carrozzabili moderne, i sentieri sterrati costituivano le principali arterie di collegamento. Erano percorsi a dorso di mulo o a piedi, snodandosi tra campi coltivati, vigneti ordinati e boschi impenetrabili, collegando il centro cittadino ai numerosi casali sparsi sul territorio.
La mancanza di comode vie di comunicazione creava un distacco non solo fisico ma anche mentale tra il centro e le periferie. Ogni villaggio manteneva la propria identità separata, in quell’antagonismo locale che caratterizzava la storia cittadina. Gli abitanti di ogni casale guardavano al villaggio vicino “come a un paese straniero”.
Muoversi significava immergersi completamente nella natura: attraversare boschi fitti, costeggiare valloni profondi, percorrere sentieri che si arrampicavano sulle colline circostanti. Era un’esperienza che metteva il viaggiatore a diretto contatto con un ambiente ancora selvaggio e rigoglioso.
Castagneto e i villaggi collinari
I villaggi collinari come Castagneto rappresentavano l’ideale della villeggiatura ottocentesca. Arroccati sulle alture con vista sulla valle del Bonea, offrivan ripide balze e gole boscose che garantivano frescura e panorami mozzafiato, lontani dal caldo torrido della città bassa.
Questi insediamenti erano immersi in un verde lussureggiante, circondati da castagneti, querceti e vegetazione mediterranea. L’altitudine e l’abbondanza di alberi creavano un microclima particolarmente favorevole durante i mesi estivi.
Un’attrazione naturalistica per i viaggiatori
Nell’Ottocento, accanto alle tradizionali motivazioni culturali del Grand Tour (arte, storia, architettura), erano emerse istanze di altra natura: il desiderio di bei paesaggi colorati, di sole, di luce, di natura rigogliosa ed incontaminata.
Questo carattere ludico, sensitivo e naturalistico del viaggio veniva spesso trascurato dagli storici, eppure molti viaggiatori lo ponevano a base delle proprie esperienze. Il viaggio a Cava non era solo un’escursione culturale per visitare l’Abbazia benedettina, ma rappresentava un’immersione totale nella natura mediterranea, con i suoi colori, profumi e atmosfere che il Nord Europa non poteva offrire.
La sensibilità romantica per il paesaggio
La cultura ottocentesca era caratterizzata da una forte sensibilità romantica verso la natura. I viaggiatori si lasciavano andare a slanci contemplativi di fronte ai panorami, alle suggestioni paesaggistiche, ai giochi di luce tra i boschi.
Le descrizioni dell’epoca rivelano un’attenzione minuziosa a ogni elemento del paesaggio: i boschi fitti, i sentieri che si inerpicavano sulle colline, i campi coltivati, i vigneti ordinati, le selve impenetrabili. Ogni dettaglio meritava di essere registrato e trasmesso ai lettori d’oltralpe.
I colori mediterranei
Il paesaggio cavese era pervaso dai colori tipici del Mediterraneo: il verde intenso dei boschi, il giallo dorato dei campi di grano maturi, il viola dei vigneti, il bianco abbagliante delle case sparse sulle colline, l’azzurro intenso del cielo estivo.
Era un ambiente che offriva continue sorprese visive: panorami che si aprivano improvvisamente al termine di una salita, scorci mozzafiato, giochi di luce e ombra creati dalla vegetazione rigogliosa. I profumi erano altrettanto intensi: terra bagnata, fiori selvatici, erbe aromatiche spontanee, grano maturo.
La funzione salutare del clima
Cava si raggiungeva facilmente da Napoli in carrozza ed era considerata “il luogo più fresco e salutare per una villeggiatura estiva” nelle vicinanze della capitale. Questo aspetto aveva grande importanza in un’epoca in cui il clima e l’aria salubre erano considerati elementi terapeutici fondamentali.
L’altitudine, la vicinanza ai monti, l’abbondanza di vegetazione e la presenza di acque fresche facevano di Cava una meta ideale per chi cercava ristoro dal caldo torrido napoletano. Le condizioni climatiche favorevoli rappresentavano un richiamo irresistibile per i benestanti che potevano permettersi una villeggiatura, contribuendo allo sviluppo del turismo estivo.
Le colture e l’economia rurale
Il paesaggio agricolo era caratterizzato da una policoltura tipicamente mediterranea. Dominavano i campi di grano e granturco, alternati a vigneti ben curati che producevano vini apprezzati. Non mancavano castagneti, oliveti, frutteti e orti.
Questa varietà colturale creava un paesaggio a mosaico, dove le diverse coltivazioni si alternavano seguendo l’orografia del terreno e l’esposizione al sole. Era un’agricoltura di sussistenza ma anche commerciale, che permetteva agli abitanti di mantenere quel saldo rapporto con la terra che caratterizzava la società cavese.
La difesa della natura
Le testimonianze dell’epoca rivelano anche una crescente sensibilità verso la protezione degli animali e della natura, tipica della cultura anglosassone ma ancora estranea a quella locale. Alcune pratiche diffuse tra i contadini, come quella di accecare gli uccelli per migliorarne il canto, venivano descritte come “orrori ripugnanti” e “atrocità che gridano vendetta sull’uomo”.
Questa differenza di sensibilità testimonia come il rapporto con la natura fosse diverso: più utilitaristico e pragmatico nella cultura rurale locale, più estetico e conservazionista in quella dei visitatori nordeuropei.
Un paesaggio frammentato
La geografia naturale creava una città fortemente frammentata: il centro abitato principale nella valle, i casali arroccati sulle colline, vaste aree boscose che facevano da elemento di separazione. Questa frammentazione condizionava profondamente la vita sociale ed economica.
I contadini vivevano in un rapporto quotidiano con questo ambiente: percorrevano i sentieri per recarsi ai campi, conoscevano ogni anfratto dei boschi, sfruttavano le risorse naturali per il sostentamento. La natura non era solo uno sfondo scenografico, ma l’elemento che determinava ritmi di vita, spostamenti, attività economiche.
La scoperta turistica
Cava venne “scoperta” come meta turistica nella seconda metà del Settecento, insieme ai templi di Paestum. La cittadina, preziosa per il cambio dei cavalli e per rifocillarsi lungo il percorso verso Salerno, entrò nelle descrizioni e nelle stampe dei viaggiatori del Grand Tour.
Questa scoperta non rimase episodica: nel corso dell’Ottocento Cava si affermò come destinazione di villeggiatura estiva, attirando famiglie benestanti napoletane e straniere che cercavano frescura e bellezze naturali. Si sviluppò così una primitiva forma di turismo ambientale ante litteram.
La trasformazione perduta
Quella Cava dominata dalla natura, con i suoi boschi fitti, le selve impenetrabili, i sentieri sterrati percorsi a dorso di mulo, è ormai scomparsa. L’urbanizzazione del Novecento, la costruzione di strade asfaltate, l’espansione edilizia hanno radicalmente trasformato il paesaggio.
I boschi che dominavano largamente il territorio si sono ridotti, i sentieri sono diventati strade, le aree agricole sono state progressivamente edificate. È andata perduta quella perfetta simbiosi tra insediamento umano e ambiente naturale che caratterizzava la Cava ottocentesca.
Una memoria da preservare
Le testimonianze dell’Ottocento costituiscono un patrimonio documentario insostituibile per comprendere quale fosse il paesaggio originario di Cava. Ci restituiscono l’immagine di una città che viveva in perfetta armonia con l’ambiente naturale, dove la natura non era solo uno sfondo ma l’elemento dominante dell’identità locale.
Questi documenti sono oggi uno strumento prezioso per recuperare la memoria di quella Cava verde e selvaggia che fu meta ambita dei viaggiatori ottocenteschi. Leggere quelle pagine significa compiere un viaggio nel tempo, riscoprire un rapporto con la natura che oggi abbiamo in gran parte perduto.
Un patrimonio naturale che, nella sua forma originaria, è andato perduto, ma che grazie a queste testimonianze continua a vivere nella memoria collettiva, ricordandoci quanto sia importante preservare ciò che ancora rimane del nostro paesaggio storico.
Articolo basato sulle testimonianze di viaggiatrici straniere dell’Ottocento pubblicate tra il 1860 e il 1891, e sullo studio “Cava nella seconda metà dell’Ottocento” del prof. Giuseppe Foscari.